OSTERIA DEI MESTIERI

sala prioriNell'ingresso della trattoria Marchegiana al numero civico 1 della piazzetta Benedetto Cairoli, oggi non più come all'epoca degli anni '20, vi erano dei tavoli lunghi per i clienti ed un bancone con il piano in marmo, con sopra due grandi brocche di coccio per la mescita del vino bianco e rosso. Al mattino verso le ore 9 c'era la colazione degli artigiani del Borgo che in pratica veniva consumata dopo aver già fatto quattro o cinque ore di lavoro. Si mangiava quasi sempre sardelle, aringhe, tutta roba scatolata poco costosa, con cipolla e aglio. Le "corporazioni" degli artigiani erano rappresentate quasi in toto: c'era quella dei falegnami, con Romualdo Bartolini, il quale capeggiava il tavolo in fondo, mentre nell'altra parte del tavolo c'era una persona di indiscussa autorità come Ugo Pallotta, padre di Jader, entrambi calderai; vicino a lui c'era Righetto del mazzolo bravo calzolaio, che mangiava silenziosissimo, era il più veloce di tutti, per tornare subito a lavorare nella sua bottega che stava lì a due passi. Il sarto Armando Bolzonetti che aveva l'attività a metà della Marischiana ed era sempre elegante, come del resto tutti i sarti ed i barbieri; poi veniva Peppe il fornaro che camminava con i piedi leggermente divaricati, un po' sciancato, che portava in equilibrio sulla testa una lunga tavola. Non mancava lo stagnino Bruno Pascucci detto il Locco; i fratelli Angelelli, fonditori di prim'ordine; Peppe Frati detto Bomba, la cui figlia aveva sposato il figlio di Tavolino, un uomo alto con un grande cappello di feltro, silenzioso e sempre dignitoso, nel senso che mangiava, beveva il suo mezzo litro e tornava a lavorare senza parlare. Una figura importante che frequentava la trattoria del Marchigiano era Virgilio Riccioni l'ottonaio; si poteva trovare anche Nullo, il padre di Mosmene Bellocchi, grande famiglia di elettricisti; poi c'erano Attilio Rossi detto Laschetta, un calzolaio che aveva la bottega nel vicoletto sugli spiazzi di San Nicolò, e un certo Pichetta. Veniva pure Pesci, il padre degli orefici fabrianesi, e un bravissimo cantante del Teatro Gentile; c'era pure Primo Latini, fratello di Alfredo e la corporazione dei barbieri era ben rappresentata da Schicchi. Oltre le sardelle e le aringhe, gli artigiani mangiavano la mortadella, che costava poco, la coppa, le coratelle con le animelle, che oggi è uno sfizio, poi tutto ciò che era lo scarto del maiale. Il vino e questa roba saporita erano talvolta accompagnati dalle fette di polenta rafferma e quando era proprio di lusso c'era pure il baccalà che costava poco. Le noci, i grassi, erano altre cose che comparivano sulla mensa dell'artigiano. Talvolta poteva esserci anche la pancetta, il lardo, il "grassemmagro" come veniva chiamato e che mangiavano a grandi fette, immagazzinando più calorie possibili, utilissime d'inverno perché dovevano stare a lavorare altre ore al freddo nelle botteghe, le cui porte si aprivano e si chiudevano continuamente. Ciò che accomunava questi artigiani fabrianesi era un grande senso di dignità, una grande inventiva, uno scrupolo sul lavoro, una grande professionalità e ripugnanza di vivere del lavoro altrui, oltre all'orgoglio di avere una propria bottega e anche la civetteria di creare di sé un personaggio, essendo essi inventori di se stessi, non avendo alcun modello cui riferirsi.

Bibliografia: Terenzio Baldoni - ARTIGIANI A FABRIANO NEL '900 - stampa Arti Grafiche Gentile 1995 - intervista al giornalista Manlio Mariani, a cura di Romualdo Bartolini, del 14 luglio 1995, pag. 9.